Eccoti deserto.
Finalmente sotto i miei piedi.
Davanti ai miei deboli occhi.
Sulla mia pelle.
Ti stavo aspettando.
O tu aspettavi me.
Ci siamo incontrati.
Cosa mi dici ora che sono qui?
Raccontami le tue onde.
Il tuo niente.
Raccontami le storie che hai sotto il velo sottile della polvere.
Quelle ossa fragili che non hai saputo nascondere in centinaia d’anni.
Raccontami la tua terra dura o quella morbida che tiene il segno del mio passo pesante.
Chi si è fermato all’ombra dei tamerici?
Forse qualcuno per pregare, inginocchiato verso la Mecca.
Oppure per bere.
Qualcuno, come noi, si è fermato per mangiare.
Grazie per questi istanti di refrigerio.
Chi sono questi alberi soli?
Sono Acacie sopravvissute all’aria e all’arsura che i nomadi riconoscono da lontano.
Sono puntini da unire per disegnare la strada.
Eccole le tue dune, deserto.
Grandi e morbide.
Sono le pieghe del tuo vestito migliore, le dita allungate che grattano via la vita.
Se non fossi così affascinante avremmo ancora più paura di te.
Delle tue distanze.
Di quella apparentemente uniformità che ti rende ostile a chi non ti conosce.
Non basta la tua fata Morgana per ingannarci.
Non per noi che non la vediamo nemmeno.
Cerca un miraggio migliore.
Che non sia fatto di luce.
Se vuoi giocare, inventati stelle che cantano, cavalli che danzano o profumo di un dolce appena sfornato.
Ora sappiamo che lo sai fare.
Ma il fuoco è forte come te.
E se balliamo e cantiamo attorno alle fiamme sappiamo far cadere la pioggia.
Piove.
Non ci credo.
Piove.
Non credo nemmeno che dalla sabbia possa uscire il pane.
Caldo.
Con il sapore di noi.