opo aver raccontato quasi ogni momento dell’avventura sul Monte Rosa, non siamo riusciti a raccontare il finale.
Non sapevamo nemmeno noi quale fosse il finale.
È un lieto fine?
Se siamo qui a raccontare probabilmente si, ma non è quello che avevamo immaginato.
Non è il finale da copione.
Quello con le bandiere che sventolano in vetta, con le facce piene di gioia, magari le lacrime di commozione.
Il cielo blu sul ghiaccio bianchissimo.
Immagini con i contorni perfetti dell’aria sottile.
Quale è invece, l’immagine della rinuncia?
Quella con dei fiori di cartone in mano? In mezzo a una traccia di risalita, dove non si capisce se stiamo salendo o scendendo?
Rinuncia.
Una parola che avevamo messo in conto, dietro la consapevolezza del tentativo.
Sapevamo che comanda la montagna.
Ma non volevamo dargliela vinta.
C’erano troppe ragioni per arrivare in cima.
C’erano fiori e medaglie ad aspettarci.
Avevamo le pietre negli zaini, le avremmo strette tra le mani per mandare da lassù pensieri di speranza per l’umanità.
Ci abbiamo provato, cambiando i programmi per tre volte.
Cercando finestre di sole nelle perturbazioni imprevedibili, che neanche gli svizzeri sapevamo più come segnalare.
Avevamo scelto di partire a giugno perché sono questi i giorni migliori.
Ma ai temporali improvvisi, alle tempeste di neve e alla nebbia si sono aggiunti il caldo di questi giorni e le mancate nevicate invernali.
Si legge su tutti i giornali che i ghiacciai sono in sofferenza.
Tutti
Dalla Marmolada allo Stelvio, dal Bianco al Rosa.
Su quella sofferenza abbiamo messo i piedi, facendo stridere i denti di metallo sulle rocce nude, laddove doveva esserci ghiaccio.
L’abbiamo sentita la sofferenza.
Ha il suono di acqua che scorre a giugno con la velocità di agosto.
La sofferenza ha anche dei buchi profondi, dei crepacci che fanno tremare all’idea di finirci dentro.
Se il confine del ghiacciaio, quello tra il bianco della neve e il grigio delle pietre è assimilabile a quello tra la vita e la non vita, alle 4 del mattino.noi eravamo li.
Con le luci frontali sulla testa, i ramponi ai piedi e i guanti sulle mani.
Eravamo pronti ad attaccare quei 900 metri fra la Capanna Gnifetti e la Capanna Margherita.
900 metri, milioni di respiri affannati e passi corti.
Passi quasi in verticale, alcuni sulle orme di chi è passato prima, altri scivolosi, affondati fino al ginocchio.
Passi a caso, scoordinati. Un piede avanti all’altro come una mantra di fatica.
Il cuore che esplode in petto.
Bum bum.
Batte fortissimo e l’aria non riesce ad entrare per il naso.
Ci vuole tutta la bocca spalancata, per farne entrare il più possibile e catturare ogni atomo di ossigeno rimasto.
Respiri e battiti.
Qualche lucido pensiero si affaccia alla mente.
Lucido?
Non c’è niente di lucido lassù.
Non per noi che siamo gente di pianura.
Non per noi che già sentiamo il sapore della conquista.
Avidi di vittoria e di storie vincenti.
Ci vuole la vera lucidità.
Quella di chi conosce la montagna, quella montagna.
Di chi è nato sotto Sua Maestà.
Di chi conosce le ferite del ghiacciaio e sente quei crepacci come tagli sulla pelle.
Quella lucidità diventa sentenza.
Siamo sul Colle Vincent, 4090 metri.
Scusate se è poco.
Siamo sotto la Piramide.
Abbiamo appena ripreso un ritmo regolare del respiro.
I piedi bagnati, la schiena madida di sudore gelato.
Torniamo indietro.
Basta guardarsi intorno per capire che non è uno scherzo.
Siamo avvolti nella nebbia.
È tutto bianco.
Torniamo indietro.
In cordata non vige la democrazia.
Non ha senso replicare.
Giriamo i ramponi, invertiamo l’ordine di avanzamento e scendiamo.
Le lacrime sgorgano lo stesso.
Non sono di commozione.
Sono di tristezza.
Una profonda amare tristezza.
Mancavano 500 metri.
Troppo pochi per non aver sentito il profumo di quella Margherita.
Che da sempre, con i suoi petali ci lascia in sospeso.
M’ama non m’ama.
Arriverò non arriverò.
Troppo pochi. Troppi per sfuggire alle nuvole nere.
Lentamente, come se affondassimo in un bicchiere di latte, scendiamo.
Non c’è niente da dire, se non alzare lo sguardo e vedere che il temporale ha davvero voglia di scaricarsi da qualche parte.
Trovarsi immersi nella sua elettricità sarebbe pericoloso.
Incrociamo cordate in salita, di quelli che scelgono di provarci lo stesso.
Non riesco a guardare in faccia quegli automi lenti con elmetti e picozze.
Scendiamo fino al rifugio Mantova appena in tempo per schivare una tempesta di neve.
Quei chicchi di ghiaccio che sferzano sulla faccia sono la tagliente verità.
Non potevamo fare diversamente.
La rinuncia è saggezza.
Verrebbe voglia di rispondere che le più grandi conquiste non sono state conseguenze della saggezza.
Verrebbe voglia di rispondere che scrivere questa storia è molto più difficile che mostrare una delle foto del copione.
Forse ci vorrebbe un capitano incosciente.
Un capitano che non ha né moglie né figli.
Ora che siamo dentro al rifugio Mantova, sorseggiando un caffè caldo, possiamo cominciare a dare un senso alla rinuncia.
Perché bisogna imparare anche a rinunciare.
A sapersi fermare.
A saper leggere i segnali che arrivano.
A rispettare chi è più grande, più antico e più eterno di te.
4100 metri sono una conquista.
Sono il giro di boa tra la vittoria e la rinuncia.
Nessuna sconfitta.
Non era una gara.
Non dovevamo vincere niente.
Volevamo solo portare la nostra bandiera lassù.
Alzarla oltre la Rosa e la Margherita.
Ma non è tutto rose e fiori
Lo sapevano dall’inizio.
E forse non c’è modo migliore di dirlo che con il finale di questa storia.
Che scivola verso valle con la sconsolata consapevolezza che siamo in pericolo.
Noi umani siamo in pericolo.
Chissà se solo gli umani sognano, desiderano.
Forse sognano anche i fiori.
Quelli che un giorno, per davvero cresceranno sulle cime dei monti.