Nel suo sito e blog personale, Giuseppe di Grande ha fatto una interessante carellata delle “cazzate”, come le definisce lui, che studenti, aziende e startuppari si sono Inventati negli ultimi anni per i ciechi.
Riportiamo la sua interessante introduzione, tratta da qui
Possono, e lo fanno. A volte si accontentano di ottenere cinque minuti di ribalta con un articolo su un Giornale, altre puntano a finanziamenti per darsi un lavoro in nome della solidarietà verso chi non vede e necessita, secondo loro, dell’ennesimo ritrovato tecnologico che gli dia “Autonomia”.
È la schiera degli innovatori folgorati dalla disabilità visiva, che vogliono a tutti i costi consentire ai ciechi di vedere. E così inventano l’impossibile, oggetti e soluzioni strampalate che qui, elencate tutte in una volta, disegnano un quadro grottesco della persona cieca bardata di occhiali, scarpe, cappelli, caschi, elmetti,bracciali, collane, anelli, fasce vibranti... e giuro di non aver trovato tutte le “innovazioni” e “primogeniture” tecnologiche che ho letto durante la mia vita da cieco, perché all’appello ne mancano ancora tante, come bandane e panciere vibranti.
Quella che vi presento di seguito è una mostra degli orrori. A volte sviluppate di propria spontanea “ingegnosità”, altre con la complicità degli stessi ciechi, le innovazioni wearable e meno wearable che espongo in questo elenco, dopo il senso di smarrimento iniziale, suscitano un’amara ilarità. Ma dura poco, perché poi subentra l’indignazione; la pietà con cui sono farcite queste “opere di bene” penetra nella pelle e colpisce metaforicamente gli organi vitali, perché si comprende di essere stati ancora una volta strumentalizzati. Magari i protagonisti di queste storie ci credono davvero, ma ciò non toglie che siamo di fronte alla classica “banalità del male”, cioè a una completa inconsapevolezza di cosa significano le proprie azioni e quali effetti distruttivi possano avere per le persone che indirettamente le subiscono.
Queste che vi presento di seguito, sono solo parte delle meteore che in questi ultimi dieci anni sono sfrecciate nel cielo della disabilità visiva. Ne ricordo altre, ricordi che però Google non mi ha permesso di ritrovare. Ho omesso i dispositivi e le app più comuni, che hanno fatto poca notizia o che sono passate quasi inosservate, o altri flop del settore che hanno martellato le gonadi dei ciechi per mesi, e poi sono spariti nel nulla. Ho lasciato solo, per modo di dire, quelle invenzioni sensazionalistiche, quelle che hanno colpito l’animo ingenuo di giornalisti e lettori facili alla commozione. Il settore della disabilità visiva però è costellato di queste invenzioni. Ce ne sono state negli anni settanta, ottanta, novanta, duemila.
I non vedenti più anziani ricordano sicuramente tutti i ritrovati miracolosi di qualche salvatore prestato al mondo della disabilità per breve periodo, fortunatamente; invenzioni farlocche sviluppate in buona o in cattiva fede. I risultati però di simili azioni convergono verso un unico atteggiamento: l’arroganza e l’ignoranza, palese o nascosta, di alcune persone che si credono presuntuosamente innovatori della vita di una fascia di persone che tentano ogni giorno di districarsi tra ogni sorta di barriere fisiche, mentali, culturali.
Forse sono diventato cinico anche a causa di tutte le notizie strappalacrime che ho letto in questi anni, che sono cadute addosso alle persone non vedenti senza neanche chiedere loro un parere. Il mio sentimento è comune a quello di altre persone non vedenti. Fatto è che ormai fiuto le stronzate a partire dal titolo: è solo questione di sopravvivenza.
Disdicevole è quando ad essere promotori di queste iniziative sono gli stessi ciechi. Compassionevole è quando si strumentalizzano gli studenti a impegnarsi nel modo sbagliato verso la disabilità: anziché formarli per offrire loro un modello di cooperazione tra persone disabili e non disabili, come sarebbe giusto che fosse, si imbocca la strada più semplice dell’assistenzialismo. Dovrei girarci attorno, non dovrei usare parole così dirette, lo so, per non inimicarmi disabili e non disabili. Perché come nella classica Sindrome di Stoccolma, a volte sono gli stessi ciechi a entusiasmarsi per queste strumentalizzazioni, quei non vedenti che, anziché reagire e partecipare allo sviluppo di idee, si sentono inferiori rispetto al resto del mondo, rispetto a quella massa di individui capace di sbranarli con la famelica retorica della pietas verso i più deboli. Almeno ci fosse un solo cieco che avesse trovato lavoro grazie al Finanziamento di uno di questi “progetti innovativi”!
Questo elenco non ha inizio con la prima notizia, né ha fine con l’ultima. Quanto qui si percorre, a bordo di un rullo compressore, è solo una parte di quella infinita strada di presunte innovazioni che i non vedenti di tutto il mondo sono stati costretti a subire, subiscono e subiranno.
Sono sempre più convinto che per scongiurare tutto ciò è necessario che i disabili visivi prendano in mano la propria vita, che siano loro gli artefici insieme agli altri degli strumenti e delle tecnologie; senza aspettare che altri edifichino tecnologia e strumenti per loro, proprio perché chi non vive la disabilità non potrà mai costruire qualcosa per migliorare la loro qualità di vita. Anziché limitarsi a chiedere diritti e a rincorrere l’accessibilità delle tecnologie di turno, i disabili visivi inizino a pretendere il dovere di essere partecipi attivi della edificazione tecnologica e sociale del mondo. Anziché essere gli esclusi destinatari di un bene o di un servizio, essere gli inclusi produttori del bene e del servizio. Anziché essere i destinatari passivi delle azioni assistenziali altrui, essere partecipanti attivi alla costruzione e modellazione del futuro di tutti. Solo in questo modo domani potrà esserci un mondo anche a misura di disabile.
A questo punto Giuseppe Di Grande propone il suo elenco.
Sicuramente, al di là dell’elenco in sè, che solo a scorrerlo vien da ridere, Giuseppe ha ragione quando dice c che i disabili visivi dovrebbero pretendere il dovere di essere partecipi attivi della edificazione tecnologica e sociale del mondo,
Come diciamo sempre anche noi l’inclusione non si fa in un senso solo, ma insieme e deve partire dalla progettazione, dalle idee.
Altrimenti rischiamo di lasciare che gli inventori ci usino come cavie per trasformarci in homo technologicus, carichi di dispositivi che vibrano, occhiali che parlano, anelli che saltano.
Viene da chiedersi, perché invece di immaginare oggetti e soluzioni per sopperire a problemi di vista, non ci si chiede prima: io lo userei?
Magari la risposta potrebbe essere: no, ma il cieco già deve usare il bastone, tanto vale che si metta anche il casco che ho inventato.
Il cieco a volte fa fatica ad accettare il bastone, che ormai è un oggetto che non serve solo alla mobilità ma anche alla identificazione e segnalazione.
Quindi prima di mettersi un casco bisognerebbe fare in modo che qual casco fosse riconosciuto e identificato come casco per ciechi.
Insomma, ci sono voluti 100 anni per far riconoscere il bastone, quindi prima di introdurre un altro oggetto che non solo aiuta nella navigazione ma permette di dire “fai attenzione, non ti vedo” ci vorrebbe un bravo comunicatore o un colpo di genio.
O forse un giorno saremo tutti come Robocop, vestiti di tecnologia e quindi ognuno avrà le vibrazioni e informazioni che necessità.