Genitori e ipovisione: l´importanza di ascoltare e parlare con i bambini.

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17 aprile 2016

Essere ipovedenti, in tutte le possibili varianti, non è facile a nessuna età.
La retinite pigmentosa è una patologia imprevedibile: è lei a decidere quando manifestarsi e con quale intensità, non importa se hai imparato da poco a camminare o se d’improvviso, con parecchi anni alle spalle, ti trovi a dover rivoluzionare il tuo mondo, a dover riorganizzare la tua vita professionale e relazionale.

Sono ipovedente da sempre, non ho ricordi di una capacità visiva migliore: nel mio caso la retinite ha avuto fretta di mostrarsi. Ma, per assurdo, nonostante tre decenni di convivenza non proprio armoniosa con la malattia, mi trovo ora quasi nella stessa situazione di chi, adulto, ha scoperto da poco di essere ipovedente e deve trovare il modo di gestire questa condizione. Questo perché sono cresciuta senza l’aiuto di una figura adulta, compresi i miei genitori, che mi ascoltasse, che mi aiutasse a scendere a patti con i miei limiti visivi, ad affrontare i piccoli problemi quotidiani di tipo pratico.
Per esperienza diretta posso dire che essere ipovedenti fin da piccoli e crescere senza nessun supporto significa dover fare una fatica doppia da adulti per conquistare un proprio spazio, per trovare il proprio posto nel mondo. Vorrei quindi sottolineare l’importanza del ruolo dei genitori quando l’ipovisione interessa bambini o adolescenti. La famiglia può essere una risorsa notevole in quel percorso ad ostacoli che è la crescita con una disabilità sensoriale, e credo che, nonostante la situazione sia migliorata rispetto agli anni della mia infanzia, dovrebbe esserci una maggiore attenzione al riguardo.

Avete presente quel momento in cui si passa da un ambiente esterno, luminoso, con il sole che non potrebbe essere più brillante, ad un spazio chiuso, e occorre un istante per abituarsi ad una luminosità inferiore? Ammetto che trovo l’istante dell’adattamento alquanto fastidioso, e il fatto che questo (non so se succeda anche a voi) risenta degli stati d’animo, e a volte si prolunghi più del solito, non aiuta.
Immaginate cosa vuol dire gestire quel momento a cinque anni. Quando si torna a casa dall’asilo, si entra nell’ascensore e tutto ciò che si vede è un’oscurità indistinta ma composta da un numero impensabile di minuscoli puntini. O a sei anni. Quando si arriva a scuola ogni mattina, e per raggiungere l’aula si cerca di mantenere lo sguardo su quella borsa fosforescente del compagno davanti a voi, o sui capelli biondi di un’altra bambina. Provate a pensare cosa significa doversi preoccupare di quei momenti (brevi, per fortuna) ogni santo giorno, fin dalla più tenera età, senza poter condividere quella preoccupazione con un adulto in grado di ascoltare, confortare e spiegare.

Già, spiegare. Perché a crescere circondati dal silenzio non solo si impara a tenere per sé ogni emozione (cosa non proprio salutare), ma si finisce con il farsi delle domande che non trovano risposta, con il dubitare di sé stessi e sentirsi diversi dagli altri.
Un giorno, avevo nove anni, tornai a casa e chiesi ai miei genitori: ”Ho paura della palla?”, rivolgendo a loro la stessa domanda fatta a me da un altro bambino, che aveva notato il mio mettermi sulla difensiva ad un suo minimo cenno di tirare la palla che aveva in mano. A quell’età, con una lunga storia di pallonate dritte sul naso, stavo iniziando a capire (da sola, ovviamente) che certe cose non mi riuscivano bene come agli altri. Il mio stato d’allarme al gesto di quel bambino era più che naturale, data la ristrettezza del mio campo visivo, ma ancora molto inconsapevole. Da qui il bisogno di capire, quella domanda così diretta. Ma i miei genitori non dissero nulla, forse cambiarono subito argomento. Di sicuro non ricevetti alcuna spiegazione. E continuai per anni a farmi domande.

Se dovessi dare un consiglio ai genitori di un bambino o un adolescente ipovedente, ripensando alla mia esperienza direi loro di parlare chiaro, ma senza trasmettere paura, perché una persona consapevole dei propri limiti fin dalla più giovane età è una persona che saprà farsene una ragione, saprà sviluppare altre risorse e chiedere aiuto senza imbarazzo se necessario. Direi loro che affrontare insieme a lui o a lei i piccoli problemi quotidiani, dimostrando che non ci sono difficoltà insormontabili, è il miglior regalo che potrebbero mai fare.

Per approfondire:

M.M. Coppa, R. De Santis, Il bambino ipovedente: profilo evolutivo e programmi educativi, Roma, Armando, 1998.
M.L. Gargiulo, Il bambino con deficit visivo: comprenderlo per aiutarlo: guida per genitori, educatori, riabilitatori, Milano: F. Angeli, 2005.

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