Mi racconti cosa facevi quando la degenerazione ha iniziato a procedere? Cosa facevi quando ti rendevi conto di stancarti già appena alzato perché ti dava fastidio ogni tipo di luce? Cosa facevi nei periodi in cui l’umore era a terra? Come facevi a riuscire lo stesso ad avere una vita sociale, senza che lo stress per la gente in movimento ti rubasse la voglia di uscire? Come si fa a non avere paura e non piangersi addosso senza ricadere in frasi fatte e consigli buonisti? Come si fa a capire quando la medicina migliore è costringersi ad affrontare situazioni di stress e quando invece è il caso di rinunciare?
Una mia amica, anche lei affetta da Sindrome di Usher, mi ha scritto ieri questa serie di domande. Forse cercava un po’ di conforto in un momento di “bassa marea”, come chiamiamo noi i momenti in cui l’umore è a terra e la voglia di far fronte alle difficoltà molto bassa.
Se provate a digitare su un motore di ricerca una qualsiasi di queste domande oppure quella più generale Come vivere e sopravvivere con la retinite pigmentosa?, le risposte che otterrete dal web sono scarse. Bisogna spulciare forum e gruppi o pagine facebook, per trovare qualche consiglio buono.
La maggior parte dei siti e blog citano definizioni della malattia e possibili terapie, scoperte scientifiche e storie personali.
Se si digita la stessa domanda in Inglese, i risultati sono diversi.
How to live with Retinitis Pigmentosa?
Tra i risultati si trovano consigli utili, da quelli prettamente pratici a quelli legati alle situazioni di stress perdita della vista e, ancora, qualche storia personale.
A ticking time-bomb: Living with retinitis pigmentosa
Living with Retinitis Pigmentosa
Interessante il decalogo in questo articolo.
Dieci consigli per vivere e godersi la vita con Retinite Pigmentosa, tra i quali mi piacciono molto gli ultimi quattro.
Trovati uno scopo!
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Vivi il momento! “nessuno di noi è immune alla malattia o la morte, la vita può cambiare in un attimo, e tutto quello che abbiamo per certo è l ‘adesso, quindi faremmo meglio a contare sulo sul presente”
A suo tempo avevo raccolto una serie di link utili sugli aspetti psicologici della perdita della vista.
Sempre su Noisyvision ci sono raccolte di libri, film e video
Non credo che la mia amica mi stesse chiedendo una raccolta di link e testi. Come se stesse facendo una ricerca universitaria e avesse bisogno di una bibliografia da cui partire.
Tuttavia vivere con la retinite pigmentosa è un po’ come cercare la risposta alle grandi domande dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo, perché siamo qui.
Come tutti sappiamo non c’è la risposta e ci sono due modi di affrontare questa mancanza. Non porsi le domande o cercare la propria risposta.
Se uno nasce Cristiano e continua ad esserlo, la risposta all’origine del mondo e la ragione della vita magari la trova in Dio. Per altri la risposta è più vicina, dentro di noi. Per altri ancora, più meccanicistici, le cose si semplificano: non siamo altro che macchine.
Partendo dal concetto base che tutti, prima o poi, avremo a che fare con delle difficoltà, siano esse legate a malattie personali o di persone care, a perdite importanti o difficili situazioni finanziarie, le domande della mia amica potrebbero sembrare inutili se confrontate con quella di un bambino del Burkina Faso che si sveglia al mattino, sente fame e pensa: mangerò oggi? Oppure di quelle di un qualsiasi padre di famiglia della Siria che non sa cosa fare per salvare i suoi figli.
Le domande sul perché della vita, come quelle sul come affrontare la retinite pigmentosa sono il lusso di chi non ha di peggio a cui pensare.
Ecco, sono ricaduto nel primo consiglio buonista.
Parafrasando quello che ho scritto, si potrebbe dire che alla mia amica dovrei rispondere: tutte le tue domande non meritano risposta perché c’è chi muore di fame, chi ha malattie ben più gravi della tua e chi non si alza dal letto perché non può e non perché prova fastidio per la luce.
Bell’amico che sono.
E’ chiaro che anch’io ho i momenti di tristezza, sconforto e paura, ma per fortuna sono sempre passeggeri. Credo sia impossibile essere sempre positivi e allegri e avere sempre voglia di uscire di casa. In effetti sono cambiato molto negli ultimi tempi. Evito le situazioni di stress, oppure cerco di gestirle in modo da limitare i danni. Per esempio se devo andare in un locale dove so che sarà buio, faccio in modo di incontrarmi con un amico prima di entrare, oppure chiamo quando sono all’ingresso.
Questo è solo un esempio e se cominciassi a scrivere una lista di consigli pratici per ogni situazione la lista sarebbe interminabile.
Tutti i consigli si possono ricondurre alla regola base: chiedere aiuto quanto necessario e non avere mai timore di chiederlo. Agli altri, come del resto anche a noi stessi, fa piacere aiutare il prossimo. Ci fa sentire bene, quindi sono in tanti gli amici o le persone che sarebbero felici di poterlo fare.
Questo primo consiglio mi invita ad ampliare la riflessione e affermare che per poter affrontare al meglio l’ipovisione è necessario stravolgere le regole sociali e fregarsene di molte di esse.
La retinite pigmentosa è una malattia bastarda perché si presenta quando credi di essere un uomo o una donna pronto per la vita e ti sei costruito i tuoi parametri e il tuo stile.
Ti piace giocare a calcio, sciare, ti piace dipingere ad olio, collezionare monete, ti piace andare a ballare, ti piace guidare l’automobile, ti piace girare in bicicletta. E invece, piano piano, devi smettere di fare tutte queste cose e cercare di farti piacere qualcos‘altro.
Oltre a dover cambiare le cose che ti piacciono e che hai sempre fatto in un determinato modo, devi cambiare il tuo modo di farle e a volte importi alcune regole che non sono quelle cui sei abituato.
Quando ti cade una penna generalmente ti abbassi piegando la schiena, mentre se lo fai quando hai la retinite il rischio di sfregiarsi la fronte contro lo spigolo di un tavolo è molto alto. Devi abbassarti mantenendo la schiena eretta, a meno che non abbia scannerizzato tutto nel raggio di un metro per poterti permettere di abbassarti come hai sempre fatto.
Imporsi questa azione ogni volta che ti cade una penna è molto difficile.
Lo stesso vale per il modo di camminare, di attraversare la strada, di andare a fare shopping.
Ma chi me lo fa fare di andare in un centro commerciale o in stazione dei treni dove i flussi delle persone sono talmente casuali da rendere impossibile fare un metro senza scontrarsi con qualcuno?
Eppure non posso smettere di viaggiare e quindi è necessario sviluppare le proprie autodifese.
Per esempio io cerco sempre di arrivare in stazione con largo anticipo in modo da non dover correre per andare a prendere il treno. Inserisco sempre la variabile “imprevisto” in modo da poter andare lentamente anche se ho aspettato a lungo alla biglietteria.
In ogni caso il bastone bianco è un lasciapassare per moltissime situazioni e un grande antistress. Prova ad impugnarne uno e tutto il centro commerciale si aprirà al tuo passaggio come le acque per Mosè.
E qui ritorno a quando già scritto. Elencare i consigli pratici per ogni situazione o ambiente non è possibile. Ma la regola di base è che occorre riadattare la propria vita e il proprio modo di vivere alla malattia, perché sia possibile essere ancora padroni delle proprie scelte.
Se rileggo ora le domande della mia amica posso notare che molte di esse sono poste da chi vive e pensa con la mente da vedente.
Se rispondessi che ognuno deve trovarsi le risposte da solo, in base al proprio carattere e alla propria personalità in base agli amici, alla famiglia e alla città in cui vive, sembrerebbe una non-risposta. Se invece a questa non risposta precede il concetto che è necessario pensare a sé stessi come ad ipovedenti prima di porsi le domande, vi renderete conto che le risposte vengono da sole.
Cosa facevi quando la degenerazione ha iniziato a procedere?
Onestamente non ho fatto niente di strettamente collegabile alla degenerazione, se non ‘usarla’ come pretesto per spronarmi a fare di più e volere di più da me stesso.
Non sarei mai partito per il viaggio in Australia e per quello in barca se non avessi voluto dimostrarmi che era possibile farlo
Cosa facevi nei periodi in cui l’umore era a terra?
Non me lo ricordo, ma in genere quando uno ha l’ umore a terra non fa altro che aspettare che passi.
Se invece c’è il rischio che il malumore sfoci nella depressione forse è il caso di cercare l‘aiuto di un esperto
Se prima di rispondere a tutte le altre domande penso che sono ipovedente le risposte potrebbero essere lr seguenti
Come facevi a riuscire lo stesso ad avere una vita sociale, senza che lo stress per la gente in movimento ti rubasse la voglia di uscire?
Faccio una vita sociale da ipovedente con tutto quello che comporta. Non credo di aver perso nemmeno un amico per questa ragione, ma potrebbe anche essere necessario cambiare tipo di vita sociale, tipo di luoghi di incontro e abitudini. Se ti sei sempre recata al bar in bici, ora ti fai venire a prendere, se sei sempre andata al cinema da sola ora ti fai accompagnare.
Come si fa a non avere paura e non piangersi addosso senza ricadere in frasi fatte e consigli buonisti?
Tutti abbiamo paura, perché la paura è uno dei sentimenti dell’ uomo. Alle volta la paura vince sulle scelte, altre volte è il contrario. Tu di cosa hai paura? Credo che per sconfiggere la paura sia necessario prima di tutto individuare di cosa. Di rimanere cieca? Di non trovare lavoro? Cerca di capire di cosa hai davvero paura.
Come si fa a capire quando la medicina migliore è costringersi ad affrontare situazioni di stress e quando invece è il caso di rinunciare?
Non credo sia mai il caso di affrontare situazioni di stress, proprio per il fatto che sono di stress. Ma chi te lo fa fare di andare a incontrarti con gli amici se questo diventa motivo per non stare bene? In questo caso il salto da vedente a ipovedente è evidentemente necessario, perché credo sia meglio cercare di eliminare o ridurre lo stress prima di affrontare le situazioni.
Non so se la mia amica sarà contenta delle risposte, in ogni caso, come le ho detto altre volte, spesso non esistono risposte, ma domande migliori, quindi una volta effettuata la conversione da vedente a ipovedente, non smetteranno di affiorare le domande, ma saranno domande per questo gioco strano dell’ipovisione e non domande universali per le quali al risposta è lunga una vita.
Non è forse vero che viviamo a seconda delle risposte che ci sembrano più adatte a noi?
Mi ha colpito molto il termine “sopravvivere”. non ho mai pensato alla USH come qualcosa a cui sopravvivere, ma piuttosto a qualcosa da integrare. Mi spiego meglio: una persona sopravvive ad una situazione quando la sua forza vitale, se non addirittura la sua vita è e può essere in pericolo; ma la USH è soprattutto un modo di vedere le cose, tutto particolare, che non è meno importante o significativo di quello che ha il resto del mondo. La sostanziale differenza, secondo me è trovare un contesto, una situazione in cui si è in grado di “vedere oltre”. Sono sicuro che possa essere successo a tutti gli Usheriani di accorgersi di essere più sensibili e più forti delle altre persone, essi (dovrei dire noi) sono in grado di mettere in gioco una grande “verità”, quella che le altre persone fanno fatica a vedere. Ha ragione Dario, quando dice che questa sindrome ci porta a riflettere su grandi domande e grandi temi, ma a mio parere, noi siamo tra i pochi che possono guardare in faccia la realtà delle cose e andare avanti. Come una forma di onestà genetica. Personalmente, la mia forza sta qui. Quando curo i miei pazienti, la mia sensibilità e la capacità di comprensione sono direttamente connesse alla USH. Per questo per me, solo di recente, la Usher non è più il mostro che era prima; è semplicemente il mio modo di vedere e sentire le cose, più marcato, è vero, ma è la mia forma di verità. Per certi versi mi ritengo fortunato ad avere la USH e ora, alla soglia dei trent’anni, mi rendo conto che se non fosse stato per lei, non sarei quello che sono oggi. Quante volte ci capita di parlare con le persone normali e ci si rende conto che hanno difficoltà ad accettare la realtà, noi non possiamo non farlo, siamo costretti. Non è questo forse un regalo per farci vivere la vita più intensamente? Ho sempre pensato questo: dietro i miei occhi c’è il mio cervello: occorre prima aprire quello, poi allora gli occhi si schiuderanno; per farvi un esempio: lavorando per diversi anni sull’ira e il rammarico il mio campo visivo ha recuperato il 30% da entrambi i lati.
Provo tenerezza a leggere le domande della tua amica, Dario, perchè è capitato a tutti noi di sentirci così abbandonati a noi stessi. Ma a mio parere sta proprio qui la fortuna. Mia nonna diceva sempre: godi appieno degli attimi di raccoglimento e di solitudine, perchè nella vita ce ne sono pochi. Noi USH abbiamo la possibilità di guardarci dentro e di migliorarci onestamente e senza ipocrisia, il mobile o il gradino contro cui inciampiamo o sbattiamo ci ricorda che siamo diversi, che possiamo andare oltre. Il nostro modo di vedere e vivere lo spazio o il tempo è avanti anni luce rispetto agli altri, la nostra capacità di percezione e sensibilità è estremamente vigile. Il nostro coraggio, la nostra forza e la volontà stanno sotto la nostra pelle resa dura dalle botte e dalle cadute. Non saremo mai dei narcisisti, proveremo sempre emozioni, saremo sempre connessi, in un modo o nell’altro con il mondo; quante persone normali lo possono fare?
Una piccola curiosità e poi chiudo: nell’antica Grecia gli oracoli erano ciechi, ma vedevano più lontano di chiunque. Come mai, secondo voi? 🙂
Grazie per il tuo prezioso commento. Quello che scrivi si avvicina molto al mio approccio alla Sindrome di Usher e alla retinite pigmentosa in particolare. Molte delle frasi che hai scritto andrebbero sottolineate e ripetute.
Tra le tante scelgo
Quante volte ci capita di parlare con le persone normali e ci si rende conto che hanno difficoltà ad accettare la realtà, noi non possiamo non farlo, siamo costretti.
Mi auguro che raggiungano molti lettori e retinopatici.
Il segreto sta nel “salt2” mentale.
Beh, che dire. Grazie, Dario, per avere fatto delle mie domande un articolo.
E grazie, Ruggero, per il tuo commento. Ho letto con attenzione le vostre osservazioni.
Da principiante Usher, posso dire che, sì, la paura è un sentimento umano e chiunque sa che, in un momento o nell’altro, può accadere l’imprevisto, può insorgere una malattia o fare capolino la morte, può presentarsi un problema molto difficile da affrontare o qualsiasi altro evento esterno che ci ricorda che non siamo nè eterni nè invincibili, che siamo limitati e fragili. Al peggio, poi, non c’è mai fine e, se dovessimo considerare tutte le condizioni di ingiusta sofferenza presenti al mondo, credo che potremmo anche porre fine alla discussione. Ma non è questo il punto. In questo momento, adotto necessariamente un punto di vista egoistico, considero cioè la mia particolare condizione. Io sono consapevole non di qualcosa che potenzialmente può accadere, ma di un qualcosa che è già in atto, è tangibile ed estremamente concreto. Con la retinite, la visione varia non solo da persona a persona, ma, anche e soprattutto, di giorno in giorno. Questa è la mia paura. Non temo la fine, temo il “durante”. Io temo la mia visione, che mi impone un giornaliero e incessante adattamento, a seconda di un imprecisato numero di variabili, che non sono mai le stesse e che non dipendono dal mio controllo, dalla mia volontà, dalla mia buona disposizione, dalle mie larghe vedute e nè, tantomeno, dal mio coraggio. Spesso mi dimentico di avere la retinite pigmentosa. Ma, a livello sotterraneo, questa paura agisce, si accumula, lievita, come una bolla di sapone che scoppia nei momenti di “bassa marea”. Può darsi che sia come dici tu, Dario: adotto ancora una modalità di ragionamento proprie di una persona “normo-vedente”. E arriviamo al punto, quindi. La conversione da vedente a ipovedente. Può darsi che sia l’ennesima domanda da principiante in questo percorso. Quando avete scoperto di essere affetti di RP, al di là del dolore, della disperazione e della rabbia, come avete fatto ad abbandonare lo schema mentale ( e quindi anche spaziale) a cui eravate abituati? Certo che mi piego con la schiena eretta se devo raccogliere un oggetto che mi è caduto o guardo in basso se devo avventurarmi in metropolitana nelle ore di punte per cercare di indovinare le traiettorie di movimento delle persone, ma devo IMPORMI di farlo. Mi devo concentrare. Mi devo ricordare. Sto per iniziare il 4° anno di carriera da Usher e sono lontana dall’aver acquisito una qualche forma di automatismo. A voi com’è capitato? Com’è avvenuto il passaggio? Valgono anche in questo caso il tempo e l’esperienza come uniche medicine possibili?
ANche nel tuo caso le riflessioni sono interessanti, soprattutto quanto ti riferisci al “durante”. In effetti potrebbe essere più semplice, per assurdo, superare un trauma unico, Una volta accettato ci si adegua alla nuova situazione invece la retinite pigmentosa è un trauma che cambia in constinuazione e costringe ad un costante adattamento. E questo non è facile.
Forse ci si abitua più facilmente ad una perdita totale perchè impone un nuovo inizio anzichè ad una degenerazione graduale che non definisce mai da dove ripartire.
Quindi lo ammetto, non credo affatto di aver imparato come si fa e sono ben lontano da aver acquisito gli automatismi a cui ci riferiamo. Credo sia un continuo allenamento. Come imparare a volteggiare su un trapezio. Conoscere la tecnica non significa saperlo fare e io sono un pessimo apprendista. Però ci provo e cerco di sforzarmi e di non mollare.
Oggi te lo imponi, domani ti dimentichi, dopodomani ci riprovi. Almeno per me è così. Sono certo che ci sono ipovedenti molto più diligenti di me.
Concordo con Dario: è molto interessante il concetto di “durante”. Mi viene in mente il mio professore di patologia generale che diceva sempre: l’uomo è un animale abitudinario. In una condizione complessa come la USH, non solo fisicamente ma anche psicologicamente, risulta chiaro che l’abitudine a fare qualcosa è difficile da ottenere. Ma ci si abitua a anche a quello. Dopotutto chi ha la RP tende a stare in casa, a muoversi il meno possibile, per me per esempio, lo spostarsi ha sempre rappresentato un piccolo trauma; ho preso treni per nove anni e la sensazione è sempre stata la medesima. Posso dire che quello che per me è cambiato è stata ottenere un po’ più di fiducia in me stesso: una volta urtai una persona, questa si arrabbiò moltissimo insultandomi in maniera anche feroce, ricordo che quella volta gli sorrisi, come uno scemo e gli spiegai che non vedevo bene; questa realtà lo colpì come se avesse preso uno schiaffo e pallido, si scusò e se ne andò. Questo per dire che, secondo me, tutte le persone hanno difficoltà ad accettare il “durante”, noi la chiamiamo RP, loro lo chiamano presente. Molte volte il punto di incomprensione nasce dall’ignoranza o dalla poca pazienza. Gli “altri” sono uguali a noi, l’unica differenza è che non sanno di che malattia soffrono, noi sì e questo nell’accettare il “durante” o il presente rappresenta una grande risorsa. Tutti ci imponiamo qualcosa, il fatto di farlo perchè si ha una condizione debilitante, significa essere responsabili e non è poco. Significa maturare prima di altri, ed è spesso da qui che nascono contrasti con il mondo. Una sensazione in particolare, ricordo dei primi tempi della mia carriera da Usher: la rabbia era così forte che era come se fossi sempre al buio; non mi piegavo con la schiena eretta, mi piegavo e basta e se prendevo in testa qualcosa, amen. Durò un bel po’. Ma poi, una notte, caddi in un letto di un torrente, per ovvi motivi… nel venire fuori da quel buco alla cieca, mi resi conto che le mie mani vedevano meglio dei miei occhi, tastavano, si aggrappavano, senza sosta e alla fine uscii. Così da quel giorno, mi affidai a loro e non mi hanno mai deluso. Certo il tempo e l’abitudine sono la migliore medicina ma secondo me è importante anche capire che noi non siamo solo occhi e orecchie malandati, c’è dell’altro che può ed è davvero luminoso.
Vorrei sapere se con la retinite pigmentosa può capitare di perdere x alcuni istanti (Dopo avere girato la testa o sollevata )la capacità di riconoscere il posto in cui ci si trova.a me è capitato e questo mi ha terrorizzata!!!grazie a chi mi risponderà
a me non é capitato ma magari puoi ripetere la domanda sul nostro gruppo facebook o altri gruppi facebook per avere una audience piu´ampia
Rispondo a Carla. Purtroppo anche a me succede di perdere il senso d’orientamento, faccio più volte la stessa strada e un giorno mi accordo percorrendola di non capire dove sono. Mi capita di girarmi di scatto e poi rigirandomi di non capire più dove stavo andando. Questo però mi capita solo nelle situazioni di poca luce e quindi principalmente di sera. Ormai mi sono abituato però… é dura.
un saluto. Maurizio