In fila indiana, con la mano sulla spalla della persona di fronte, stiamo per entrare nella sala dell’ Unsicht Bar, il ristorante al buio di Berlino. Sapevo dell ‘esistenza di questo tipo di ristoranti, ma non avevo mai avuto l’occasione di andarci. Forse ne avevo sentito parlare quando ho visitato la mostra Dialogo nel buio, a Milano qualche anno fa.
Sono tutti eccitati, nervosi, un po’ tesi. Io no.
Per me non c’è ancora nulla di strano. Cammino con la mano sulla spalla del mio accompagnatore ogni volta che passeggio per la città.
Le luci sono soffuse, ma sono certo che tutti vedono molto bene ciò che li circonda.
Angela, la cameriera, è in testa alla fila. Ci ha già dato alcune istruzioni: tutti i telefoni cellulari devono essere spenti. Sono vietati orologi luminosi, macchine fotografiche, accendini. E’ vietato fumare.
Al suo cenno partiamo e serpeggiamo tra delle pareti disposte in maniera irregolare, allo scopo di evitare che la luce del bar penetri all‘interno della sala.
Angela ci accompagna al tavolo, ci fermiamo tutti e ad uno ad uno ci accompagna al nostro posto. CI fa toccare il tavolo e la sedia, descrivendo la posizione.
Ci sediamo.
Dalle voci riesco a capire come siamo disposti, che ho di fronte e chi c’è alla mia destra. Non sento la voce di Sandra.
Sandra?
Si, sono qui.
Qui dove?
A destra di Yana.
E di fronte a te chi c’è?
Nessuno.
Ho capito.
Angela descrive come sono disposte le posate e dove sono i tovaglioli. E mentre dispone i bicchieri sul tavolo mi prende la mano per farmi sapere esattamente dove si trova.
A destra quello per il vino, a sinistra quello per l’acqua.
Versatevi il vino mettendo il dito sul bordo. Quando sentite umido il bicchiere è pieno.
Angela ripete queste operazioni per ognuno dei commensali.
Io tocco, cerco il cestello del pane, ascolto.
Non riesco bene a capire quanto grande sia la sala e quante persone ci siano.
Di fronte a me c’è una parete. Chiedo ad Andrè di toccarla. E’ di legno.
Alla mia sinistra c’è un’altra tavolata di persone.
Forse ci sono persone in coppia, ma sono troppo silenziose perché possa capire quante e dove siano collocate.
La sedia è di legno, con i braccioli. Il tavolo è di legno.
Di che colore è il tovagliolo? E la tovaglietta?
Arrivano i piatti con gli antipasti.
Angela ci chiede di aspettare, prima di iniziare a mangiare. Io non resisto. Tocco. La freschezza di una foglia di insalata.
Non so cosa mangerò. Prima di entrare abbiamo scelto il menù, ma la scelta era tra manzo, pollo, pesce. La descrizione delle pietanze era volutamente poco chiara. Poesie del gusto piuttosto che liste di ingredienti.
Provo a piantare la forchetta. Porto alla bocca una fetta di carne coperta di una salsa che sembra senape. E’ più grande di quanto pensassi. La prendo con le mani e la strappo con i denti.
Sento che anche gli altri hanno delle difficoltà. Qualcuno ride. Imbarazzato. Tutti toccano e prendono il cibo con le mani ma nessuno ha il coraggio di dirlo.
Siamo tutti seduti allo stesso tavolo ma ognuno nascosto nel proprio buio.
E’ una situazione conviviale, ma al contempo intima. Puoi fare quello che vuoi, nessuno ti vede. Gli altri sanno quello che fai solo se lo dici.
Io mi lecco le dita, prendo l’insalata con le mani. Ho trovato un fungo. CI sono delle fettine di un frutto viscido, ma non riesco ad individuare bene il sapore. Forse è mango.
Siamo tutti intentiad indovinare gli ingredienti invece di gustarne il sapore.
Tamburello le dita sul piatto. Non c’è più nulla se non uno strato di crema che raccolgo con il pane.
Mi lecco le dita, le asciugo un tovagliolino di carta.
Mi passate il vino, per favore?
La bottiglia è dall‘altro lato del tavolo. La passano di mano in mano, alla fine viene alzata alla mia destra, cerco nel vuoto nero, lentamente. Trovo le mani, le tocco, sono attorno alla bottiglia. Le accarezzo involontariamente, ma mi piace, vorrei toccarle ancora.
L’ho presa, grazie.
Angela torna al tavolo e raccoglie i piatti.
Mentre aspettiamo il piatto principale ognuno condivide le proprie sensazioni e gli apprezzamenti sul cibo.
Era effettivamente molto buono.
Credo che la vista si mangi parte del gusto. Vedere quello che si mangia anticipa il sapore e forse creiamo delle aspettative nel nostro cervello che è come conoscere il gusto prima di gustare. Solo un gelato a forma di bistecca potrebbe stravolgere il gusto e trasmettere il suo vero sapore.
Il sapore del cibo, è una proprietà che viene trasmessa attraverso la bocca e il naso. Gli occhi, forse, lo modificano, lo inquinano.
Arriva il piatto successivo.
Potrebbero anche essere di plastica, non ci sarebbe differenza.
Io non sono d’accordo. La consistenza, la temperatura della porcellana, il peso, sono qualità importanti.
Potrebbero essere tutti di colori diversi, non se ne accorgerebbe nessuno.
Ho davanti qualcosa di caldo. Ne sento il profumo tiepido.
E’ un grosso pezzo di carne. Lo sto toccando con la forchetta e il coltello.
Ci sono delle altre cose. Devo sapere cosa. Tocco.
Sono piccole patate tagliate a metà, hanno la buccia.
Sulla carne c’è una salsa. Ci passo sopra l’indice e lo porto alla bocca. E’ un gusto nuovo.
Riesco a tagliare la carne senza troppe difficoltà, la mangio con calma, gustandola ad ogni morso.
Mentre mangiamo qualcuno immagina che ci sia una telecamera a raggi infrarossi che ci riprende. Sarebbero immagini esilaranti, forse, per qualcuno, compromettenti.
Mi sembra di essere uno dei personaggi di Cecità, il libro di Josè Saramago.
Non provo tristezza, forse questo è quello che mi aspetta. Alcune delle azioni che gli altri considerano come un’esperienza, un qualcosa di diverso e inusuale, per me sono normali e quotidiane.
Devo sempre cercare con le mani le cose, devo sapere dove sono collocate.
Ma come fa Angela a mettere i piatti al posto giusto? Come fa a muoversi nella sala?
E’ questione di abituatine, di esercizio.
Risponde lei.
Probabilmente si è costruita una mappa tridimensionale dello spazio. Sa dove sono le gli arredi. Sono le voci a collocare le persone. Forse tocca le sedie, i tovaglioli, per conoscere posizione spaziale agli oggetti.
In fondo anche noi, in casa nostra, potremmo muoverci nel buio. Accendere la luce per andare a bere durante la notte è un’azione riflessa. In realtà potremmo trovare il rubinetto senza vederlo.
Io mi muovo in casa con le mani avanti a me, per evitare di scontrarmi contro porte semiaperte.
Per me non c’è molto di nuovo se non il fatto che per due ore siamo tutti alla pari. Tutti ciechi.
Tenere gli occhi aperti senza vedere è stancante.
Forse avere gli occhi aperti implica che dovremmo vedere qualcosa e invece non arriva alcuna informazione visuale. E’ una contraddizione a cui non siamo abituati.
C’è sempre un po’ di luce, anche nella notte.
Forse per loro, che vedono le stelle.
Anche il dessert è indecifrabile.
Il piatto è lungo e rettangolare.Al centro c’è un bicchierino di vetro che sembra incollato al piatto.
Tocco, è tutto cremoso e freddo. Ci sono dei pezzi di frutta e un cubetto di cioccolato, un altro di marzapane.
Forse il cuoco ha fatto in modo che sia tutto bello.
Bello per lui perché sia bello per chi mangia.
Credo che i sensi siano tutti collegati, in qualche modo e se il piatto è bello da vedere è anche più buono da mangiare, indipendentemente dal fatto che chi lo mangia sia in grado di vederlo.
Con un caffè espresso l’esperienza al buio volge al termine.
Angela da le istruzioni su come faremo ad uscire.
Tutti in piedi, dietro alle sedie. Ci giriamo di 90 gradi e mettiamo la mano sulla spalla di chi ci sta di fronte.
La capofila parte e ripercorriamo quello che credo sia la metà della lunghezza della sala. Ripercorriamo le pareti sfalsate come un serpentone cinese e siamo di nuovo al bar.
Luce.
Tutti si sfregano gli occhi.
Sorseggiamo un altro bicchiere al bar prima di uscire e ci scambiamo alcune impressioni.
Uno dice di sentirsi in colpa, perché lui ora può vedere, Angela torna dentro e continua a fare la cameriera e sia dentro che fuori dalla sala, lei non vedrà mai.
Ma perché uno si deve sentire in colpa per questo?
Come si chiama questo sentimento? Compassione? Pena?
Onestamente non condivido per niente questo modo di pensare.
Io non mi voglio sentire in colpa per le cose che ho.
Non è colpa mia la malattia degli altri. Come non è colpa di nessuno se ho la Sindrome di Usher.
E’ ora di andare.
Mi avvicino ad un amico, gli afferro il braccio e mi faccio accompagnare all’uscita.
I’ve heard a couple times about dinners in the dark and the exhibition “dialogo nel buio” from friends who attended. They were amazed about that experience, but I’ve never been so eager to try. I think because I don’t mind to have an experience with myself in the center. Walking, eating or drinking in the dark would help me to understand blind people or I would merely have a clue of my own feelings if it occurred to me to lost my vision? Once in the bright light outside the restaurant I would probably have two kinds of reaction: the “how lucky I am!” one (me, who is safe!) or the “how lucky they are!” one (they, who understand the real meaning of life). Useful? Not a lot. Cynical? Maybe. Sarcastic? Me, for sure.
But, in my opinion, the meeting, the understanding between two people is something totally different. I don’t want experience your feelings, I’d rather share, if you like (I use you as case in point, hope you don’t mind!), our own feelings together. Yours, Dario would probably involve your loss of vision and hearing. Or not. Mines, would probably involve my struggles about not having children or my religious issues. Or not, who knows? And, more to the point, how much time and talk we would need to share such intimate feelings? I’d say at least more than one dinner in the dark, with me trying to reach my glass without splashing wine all around instead of listening to you.
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” wrote Montale, an Italian poet, speaking with his dead wife who was VI. Maybe through that million steps walked together with all the chatting, arguing, crying and laughing that got along with that steps, they truly shared their feelings and not only her darkness.
I hope my English is understandable. I don’t know why I choose to write in English this time …
Once more time, thank you for all the food for thoughts.