Hands up those who have never thought of death.
How many hands would be raised if I did this question? Few, I think.
Death is part of life, even though it marks the end. Although it may be difficult to deal with this issue is the awareness of the end that value life.
Everything ends. Everything is temporary. Nothing is forever.
There are many people who fear death, especially those who see it closer due terminal illness or because of age.
Personally I do not think I am afraid of death. Not mine, at least.
I fear rather that of loved ones, friends, because after all you are confronted with the death of the other more than with your own.
I recently read an article which reported the major regrets that people express when they’re on death bed
1. I wish I’d had the courage to live a life true to myself, not the life others expected of me.
2. I wish I didn’t work so hard.
3. I wish I’d had the courage to express my feelings.
4. I wish I had stayed in touch with my friends.
5. I wish that I had let myself be happier.
Honestly, I should dedicate a little to the regret number 1, but otherwise I think if I should refer to this list I could die rather than in peace.
These considerations have made me reflect on my lifestyle and my approach to life, even in relation to the fact that I am a disabled person.
What is the value of life for me?
I said that everything ends, everything is temporary, but for all my life I will have to deal with my own limitations. They do not cease to be, indeed, will only worsen.
In this sense, disability and death are closely related.
The handicapped person can not avoid thinking about death, even when it does not need to go to hospital frequently or suffer from a particular physical pain. He feels invested by the society that surrounds him and to which he belongs, to be the reference point of solidarity. Not only as a recipient, but also for being the bearer. It may be possible to make public the suffering that can strike anyone, but that is still part of alternation of life and death.
The handicap is the symbol of martyrdom for the society.
The disabled person is present in places and circumstances of punishment, where people expect from him comfort and solace in the name of ‘shared pain, half joy,’ and because ‘he knows how to handle certain situations.’
This is not what we try to do when we attend associations and groups, write on Facebook, write an article?
Isn’t it common the need to share, to try, perhaps cynically, to find that someone else suffers as (or more than) us?
The literature is full of references to mal de vivre, which the handicap at times accentuates at times, however, justifies.
The disability can provide an alibi, a culprit, cause and recipient of my sufferings. It is clear, defined and easy to locate.
And her, my Usher syndrome, the cause of my thoughts of death , my uneasiness and of all my pains.
I am reluctant to fully tackle this topic, because I do not know what effects it can have on those who read, but I believe that eliminating certain taboos and openly confront even the most sensitive issues, may serve to make them less burning.
Diametrically opposed to the fear of death, in fact, there is the desire of death, of our own death. Translated, the suicide.
The path is not very complicated, almost taken for granted: living with retinitis pigmentosa, knowing that the sight will get worse, not having a definite deadline, being aware of the slow regression of the disease, the social impact, the need for help, despair, the depression.
And suicide.
Death as a defense, as an end of pain, not physical, but psychological. Death as the end of the daily struggle, as the end of efforts to learn every day new obstacles, the end of the frustrations for each new bump on the head or the legs, the end of the uncertainty of a job, of incapacity to work, end of insecurities, of sadness because one day you can no longer see a bird in flight, a wave of the sea, the smile of your child.
However, these are all adductions of those who have died, but fortunately not physically.
We die inside every time that we are tired, that something goes wrong, that the difficulties seem insurmountable. But even these are not forever.
When I think of death, I realize that it is always only a thought and as such I also enjoy that thought.
I think if I really take my life, I would have lost.
And I do not want to lose.
I bet with myself that I’ll get to the end, as far as I can and I will in the best way I can.
In a sense I’m curious to see how it goes this life, what I will be able to do even if I become blind.
But why would I want to end my life now that sooner or later someone will do it for me?
For better or for worse, it is better to live it all, this life.
The suffering is not easy and I will not be able to do anymore all what I listed abov, but I am a great admirer of the human mind and its immense possibilities and capabilities.
Humans adapt to everything, all the conditions of temperature, light, altitude. I, too, slowly, adapt myself and I continue to live.
I live and I think of death, suicide, everything that I like to think.
I think and I’m not afraid.
I do not want to have fear.
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• Montana, Suicide and Disability
Commenti
La fiducia in sé stessi è un dono prezioso: ci permette di accettarci per quello che siamo oggi e di non spaventarci per ciò che diventeremo domani, anche quando abbiamo la consapevolezza che il domani sarà sicuramente più difficile e doloroso.
Se guardo indietro nella mia vita, mi piace pensare che le occasioni mancate, gli errori commessi e le ingenuità siano stati semplicemente dei bivi, che mi hanno portato ad essere la persona che sono, qui ed ora. Se invece continuassi ad arrovellarmi su come sarebbe potuta essere la mia vita se fossi stata diversa, più fortunata, più accorta, più concentrata sui miei obiettivi mi perderei almeno due cose: la leggerezza e la curiosità.
Se non si accetta o, esageriamo!, non si ama il proprio vissuto – ciò che ci è toccato in sorte alla nascita e gli sbagli che riteniamo di aver fatto sulla via - non si potrà mai essere autenticamente aperti al futuro: sarà come avere una corda che ci tira indietro, facendoci fare fatica inutile ad ogni passo. E quando si fa fatica, ci si stanca. E quando ci si stanca molto, beh, si desidera solo fermarsi.
Avevo diciotto anni quando un amico si suicidò. E’ già difficile accettarlo da adulti, figurati a quell’età: eravamo tutti addolorati, confusi, arrabbiati. Volevamo a tutti i costi trovare un motivo, un colpevole. La verità è che nessuno di noi aveva la minima idea di cosa lo avesse spinto ad un gesto tanto estremo. Ancora oggi l’unica risposta che riesco a darmi, per quanto banale, è che non ha avuto abbastanza fiducia nella bella persona che era e che sarebbe diventata.
Se tu avessi scritto che l’idea di diventare cieco ti spinge a desiderare la morte, cosa avrei potuto dire? Io non so cosa voglia dire convivere con la Sindrome di Usher. Se si trattasse di un amico con cui poter trascorrere del tempo, forse potrei provare a convincerlo di quante possibilità ci potrebbero essere comunque nel suo futuro, ma … davvero potrei riuscire? Davvero una persona che non ha fiducia in sé potrebbe avere fiducia nelle parole di un amico? Davvero a quel punto servirebbero ancora le parole? O si tratterebbe solo di riconoscere il suo dolore indicibile e accettare semplicemente di lasciarlo andare?
Il suicidio di una persona a cui si è voluto bene lascia mille domande e molti rimpianti: se lo avessi amato di più, se glielo avessi detto più spesso o con parole più chiare, più dolci, più ricche. In realtà bisogna volersi bene, almeno un poco, per riuscire ad accogliere l’affetto degli altri.
E’ solo così che si innesca un circolo virtuoso, nel quale l’affetto e l’amore nutrono la fiducia e ci spingono a guardare al domani con ottimismo, nonostante tutto.
Ecco perché la fiducia in sé stessi è un dono prezioso: è la necessaria premessa dell’amore, e della vita.
"If you can trust yourself when all men doubt you,
But make allowance for their doubting too.
[…]
Yours is the Earth and everything that's in it,
And—which is more—you'll be a Man, my son!"
(R. Kipling)
Grazie del bel post, è da ieri sera che ci rifletto ...
....la leggerezza e la curiosità....
....si accetta o non si ama il proprio vissuto non si potrà mai essere autenticamente aperti al futuro....
.... necessaria premessa dell’amore, e della vita.....
...
Il tuo commento al post é pregno di profonditá e di significato.
Non riesco a separare le parole. Mi piace prenderne il messaggio, cosí come viene trasmesso.
Ottimista, positivo e leggero.
Sono parole, ma se sono scritte possono essere rilette.
Per ricordare a noi stessi e ad altri che oggi siamo stati bene.
Nei momenti e nei giorni positivi bisognerebbe farsi una riserva di coraggio e ottimismo da cui attingere per superare lo sconforto e le difficoltá.
Credo che avere la retinite pigmentosa sia, come ho detto, solo un alibi per giustificare l´incertezza del domani con cui tutti ci dobbiamo confrontare. Non c´é distinzione.
Se non, casomai, addizione. Ovvero io so che tra tutte le incercezze ne ho una di certa.
Passami l´ossimoro.
Tuttavia proprio perché siamo tutti nell´incertezza, solo piú o meno consapevoli, non credo che i miei pensieri di morte siano diversi da quelli di un monaco tibetano o di un pescatore sardo.
Siamo solo uomini e donne.
Dobbiamo solo imparare ad esserlo in ogni senso e fino in fondo.
Grazie per aver letto, pensato, riflettuto e scritto.
Avevi ragione, sono parole che rilette possono ricordarci che siamo stati bene. Qualche mese fa leggere il tuo post mi aveva spinto a scrivere quello che penso della fiducia in sé stessi, così oggi sono tornata a respirarne un po'. Della tua e della mia che al momento è ballerina.
Tutto scorre e quello che siamo oggi non saremo domani, però queste parole erano ferme qui e ho potuto tornarci. Può apparire strano ancorarsi a qualcosa di volatile come le parole, se non fosse che il semplice gesto di condividerle le rende decisamente più robuste.
Buona giornata, la mia ha già tutta un'altra luce!
Grazie du questo nuovo pensiero. Mi ha costretto a rileggere le tue parole. E, come allora, ne faccio nuovo tesoro.
"Costretto a rileggere" ... oh mamma, non intendevo di certo costringerti! Vista così è roba da narcisismo patologico... mi sa tanto che devo imparare a scrivere un po' meglio e un po' più chiaro ...
Io mi riferivo alle tue, di parole. In particolare all'ossimoro della certezza nell'incertezza. Ci ho pensato su e alla fine te l'ho rubato con una piccola variante: non importa se la nostra certezza sia un vantaggio o uno svantaggio, una fonte di conforto o di paura, è comunque un punto fermo da cui partire, possibilmente con lancia in resta!
Carissima, le parole che tanto esaltiamo a volte fanno brutti scherzi :)
Io intendevo ´costretto´nel senso di´mi hai dato l´occasione´di... andare a rileggere le mie e le tue parole.
Si può vivere con una cecità parziale ed una sordita parziale sindrome di usher che oltre a ciò causa spesso anche fortissimi acufeni e vertigini con stress improvviso dovuto a vari fattori. Chi nella vita vede e sente non è facile trovarsi improvvisamente nel buio e nel silenzio totale. Lasciare il lavoro fare una vita più tranquilla possibile e distrarsi può evitare sicuramente il peggiorare di una situazione patologica. Molti non hanno capito che moltissime patologie hanno bisogno di essere dimenticate attraverso attività che non ti stressano. Io personalmente se mi trovassi da ventesimista a cieco totale mi sentirei già morto e senza nessuno scopo. Per questo il mio consiglio non pensate sempre a fare soldi. andate a fare lunghe passeggiate nel verde della natura e ascoltate musica, amici, dimenticate lo stato patologico attraverso attività. Ecco il rimedio migliore per chi vuole uscire da un suicidio.